SULLA NATURA DEL RAPPORTO SU AMMINISTRATORE E SOCIETA’ DI CAPITALI PREVALE LA TEORIA ORGANICA. CONSEGUENZE E RECENTI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

Avv. Massimo Ganetti

diritto societario, amministratori, natura del rapporto, subordinazione, contratto autonomo

 

La Corte di Cassazione si pronuncia sulla dibattuta questione relativa alla qualificazione del rapporto intercorrente tra la società ed i propri amministratori. La questione sorge nell’ambito di un procedimento esecutivo mobiliare presso terzi.

Con la Sentenza n. 1545 del 20 gennaio 2017, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si pronunciano sulla dibattuta questione relativa al rapporto intercorrente tra la società e i propri amministratori, ovvero se sia qualificabile come rapporto parasubordinato, autonomo oppure abbia natura di rapporto tipicamente societario.

La questione si è posta nell’ambito di un procedimento mobiliare presso terzi, in cui rivestiva il ruolo di creditore procedente una banca, che promuoveva tale azione esecutiva al fine di pignorare i compensi, che il debitore esecutato (persona fisica) percepiva in qualità di amministratore di una società. Il Tribunale di Ancona assegnava alla banca, con ordinanza, tutte le somme accantonate a titolo di emolumenti per l’attività di amministratore.
Il debitore proponeva opposizione e detto tribunale, ribaltando completamente la decisione del giudice dell’esecuzione, aderiva alla tesi del debitore-amministratore, il quale sosteneva l’applicazione del limite del quinto, stabilito dall’articolo 545 c.p.c., applicabile ai rapporti di lavoro subordinato e parasubordinato, tra cui doveva collocarsi anche il rapporto di amministratore da ricondursi nell’ambito delle disposizioni di cui all’articolo 409 n. c.p.c.
La banca proponeva ricorso per cassazione avverso detta sentenza resa ai sensi dell’articolo 281 sexies c.p.c., e la terza sezione civile, alla quale era affidata la trattazione della causa, ha ritenuto di rimettere la questione alle Sezioni Unite, chiamate a dirimere il contrasto giurisprudenziale esistente sulla qualificazione giuridica del rapporto tra società ed amministratori e, conseguentemente, a pronunciarsi sull’applicazione dei limiti di pignorabilità degli stipendi, di cui all’art. 545 c.p.c., anche ai compensi dovuti all’amministratore.

La questione della qualificazione del rapporto amministrativo è stato oggetto di ampio dibattito, sia dottrinale che giurisprudenziale, sin dai primi anni ’50 del secolo scorso, esprimendo entrambi orientamenti non unitari.
Le posizioni formatisi si possono sintetizzare in due fondamentali teorie:
– la teoria contrattualistica, la quale ritiene che esista un negozio giuridico che disciplina i rapporti tra due soggetti da tenersi distinti, la società da un lato e l’amministratore dall’altro, da considerarsi autonomi centri di interessi anche contrapposti;
– la teoria organica, secondo cui vi sarebbe una immedesimazione dell’organo di amministratore nella persona giuridica che rappresenta, escludendo la possibilità di un regolamento negoziale interno.
La difficoltà di trovare una soluzione uniforme ha determinato numerose pronunce giurisprudenziali, sia di merito che di legittimità, spesso in contrasto tra loro.

Solo nel 1994 le Sezioni Unite, con la Sentenza del 14 dicembre 1994 n. 10680, hanno cercato di dirimere i contrasti affermando i seguenti principi: 1) l’attività che l’amministratore è tenuto a prestare in favore della società presenta caratteri tipici della parasubordinazione, ossia della personalità, della continuazione e della coordinazione, rientrando a pieno titolo nella previsione di cui all’articolo 409 n. 3 c.p.c.; 2) la qualificazione del rapporto come parasubordinato non presuppone una debolezza contrattuale dell’amministratore rispetto alla società, in quanto il legislatore non ha previsto tale elemento per la qualificazione di detti rapporti e non potrebbe essere considerata come presupposto per l’applicazione del suddetto articolo 409 c.p.c.; 3) l’esistenza di una immedesimazione organica, tra amministratore e società, non è di ostacolo all’instaurarsi di un vincolo di parasubordinazione, poiché non esclude la presenza, nei rapporti interni, di un rapporto di natura obbligatoria tra l’amministratore stesso e l’ente da lui gestito.
Tale pronuncia è stata ampiamente criticata successivamente alla riforma societaria del 2003, che ha radicalmente innovato la disciplina del governo della società di capitali, rafforzando la centralità dell’organo amministrativo con un potere di gestione esclusiva ex art. 2380 bis c.c., nonché un potere di rappresentanza generale ex art. 2384 c.c. Oltre a ciò, è stata attribuita al Tribunale delle Imprese la competenza in merito alle controversie relative ai rapporti societari, ivi compresi quelli concernenti l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di rapporto societario.

Difatti, la giurisprudenza successiva alla riforma suddetta, nel corso degli anni, è oscillata tra pronunce a sostegno dell’impossibilità di qualificare il rapporto in questione come parasubordinato (Cass. 12 settembre 2008 n. 23557), ovvero che ne affermano la natura di contratto autonomo (Cass. Civ. del 13 novembre 2012 n. 19714 e Cass. 01 aprile 2009 n. 7961), oppure che inquadrano il rapporto in un vincolo di natura societaria, poiché l’amministratore consentirebbe alla società di agire in forza di una immedesimazione organica (Cass. 11 marzo 2015 n. 14369 e Cass. 17 ottobre 2014 n. 22046).
In tale contesto intervengono la Sezione Unite del 2017, che, a differenza di quanto espresso nel 1994, escludono che il requisito della coordinazione possa essere ravvisabile nel rapporto tra società e amministratore.
A tali conclusioni si giunge proprio in considerazione della riforma del 2003 ed in virtù dell’esclusiva competenza nella gestione dell’impresa, da parte dell’organo amministrativo. Infatti, la sentenza, in commento, precisa che: a) la competenza gestoria degli amministratori ha carattere generale e strumentale al conseguimento dell’oggetto sociale mentre quello dell’assemblea ha carattere delimitato e specifico; b) la decisione di compiere l’atto rimane sempre in capo all’amministratore, anche nel caso in cui è prevista l’autorizzazione da parte dell’assemblea; c) la debolezza contrattuale, anche se non espressamente prevista dalla legge, è la ragione principale dell’estensione ai rapporti parasubordinati delle tutele del lavoro subordinato, debolezza che deve essere esclusa per gli amministratori, ai quali, a seguito delle riforma del diritto societario, sono attribuiti ampi poteri, autonomia e responsabilità.

Le Sezioni Unite, dopo aver escluso – per le ragioni esposte – la possibilità di ricondurre il rapporto amministratore-società al rapporto di parasubordinanzione, aderiscono ad un recente orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cassazione Civile 11 febbraio 2016 n. 2759 e Cassazione Civile 17 ottobre 2014 n. 22046), qualificandolo come un rapporto di tipo “societario”, che “in considerazione dell’immedesimazione organica che si verifica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non è compreso tra quelli previsti dall’articolo 409 c.p.c. n. 3”, escludendo così l’assimilabilità del rapporto in questione sia ad un contratto d’opera che ad un rapporto di tipo subordinato o parasubordinato.
In sostanza, il legame tra amministratore e società, in base a quanto espresso dalla Suprema Corte, è considerabile come un autonomo rapporto ossia “un rapporto di società perché serve ad assicurare l’agire della società” che non necessita di riqualificazione nei termini di lavoro autonomo, di subordinazione oppure di parasubordinazione.
La pronuncia costituisce certamente una presa di posizione netta a favore della tesi dell’immedesimazione organica producendo, a parere dello scrivente, rilevanti conseguenze. Non vi potranno essere più dubbi sulla pignorabilità per intero dei compensi percepiti dagli amministratori delle società, quindi senza i limiti di cui all’articolo c.p.c. comma 4, nonché sul venir meno della competenza del giudice del lavoro, in favore della competenza del Tribunale delle Imprese (ovviamente salvo l’ipotesi di una clausola compromissoria nello statuto della società).
Sempre in merito al compenso dell’amministratore, diventa inconfutabile, in virtù dell’affermato rapporto societario, il ricorrere della prescrizione quinquennale ai sensi dell’articolo 2949 c.c., oltre che la conferma della natura chirografaria del credito dell’amministratore nell’ambito dell’ammissione al passivo fallimentare, in quanto, la sentenza in commento, esclude la riconducibilità della prestazione dell’amministratore a quella posta in essere nell’ambito di un contratto d’opera ex art. 2222 c.c.

Queste conclusioni altro non sono che la conseguenza del fondato iter logico seguito dalle Sezioni Unite e sono state seguite dal giudice di legittimità in successive pronunce, anche per confermare principi già espressi dalla stessa.
Merita attenzione l’Ordinanza del 09 gennaio 2019 n. 285 della Corte di Cassazione, Sezione Prima, la quale, chiamata a pronunciarsi sulla richiesta di un amministratore di una società di capitali di vedersi corrispondere il proprio compenso per aver ricoperto tale carica per 26 anni, nonostante la presenza di una norma statutaria che prevedeva la gratuità della stessa, conferma l’orientamento delle S.U. n. 1545/2017 circa l’impossibilità di qualificare il rapporto tra amministratore e società alla stregua di un lavoro parasubordinato, poiché l’amministratore è legato alla società da un rapporto di tipo societario, ribadendo, contestualmente, anche grazie a tale convincimento, la legittimità della previsione statutaria di gratuità delle funzioni di amministratore di società.