LA SOLIDARIETA’ POST-CONIUGALE E LA FUNZIONE DELL’ASSEGNO DI DIVORZIO NELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE SS.UU. n. 18287/18

Avv. Valeria Vezzosi

diritto di famiglia, assegno divorzile, tenore di vita, autosufficienza economica, natura dell’assegno, struttura del giudizio

 

L’assegno di divorzio si è evoluto nel corso degli anni, sia da un punto di vista normativo, sia da un punto di vista applicativo. Ne è mutata la funzione, rispetto all’epoca della sua introduzione con la legge 898/1970, è mutato il principio sulla base del quale è possibile riconoscerlo e sono ancora oggetto di discussione, tanto che si è reso necessario l’intervento della Cassazione a Sezioni Unite nel 2018, i criteri in base ai quali il Giudice deve valutare l’adeguatezza dei mezzi del coniuge c.d. “più debole”.

L’evoluzione normativa ed applicativa dell’istituto giuridico dell’assegno di divorzio, introdotto con la legge 898/1970, ha seguito la storia dell’emancipazione femminile e l’evoluzione dello stile delle relazioni interpersonali.

L’assegno di divorzio è nel diritto di famiglia italiano il baluardo a tutela del coniuge più debole nel momento dello scioglimento del matrimonio. A tale diritto sono collegate altre forme di provvidenza: il diritto alla pensione di reversibilità del coniuge onerato premorto (art 9 3° comma l. div.), il diritto ad un assegno periodico a carico della eredità in caso di stato di bisogno del beneficiario di assegno (art 9 bis l. div.), il diritto ad una quota del TFR del coniuge onerato (art 12 bis l. div.).

Il principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi fissato dall’art 29 2° Cost. costituisce il fondamento del principio di solidarietà familiare che ispira l’art 5 6° comma legge 898/1970, oltre che gli artt. 143 e segg. c.c. come modificati dalla legge di riforma di diritto di famiglia n. 151/1975. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare. Ai coniugi è garantita eguaglianza morale e giuridica in ogni fase del matrimonio, ivi compresa la cessazione o lo scioglimento del vincolo.
Storicamente il coniuge economicamente più debole fra i due è la donna, situazione che perdura tutt’oggi nonostante la maggiore presenza delle donne nel mondo del lavoro.

L’assegno di divorzio è normato all’art 5 l. div. Nel 1970 il legislatore prevede l’assegno a favore del coniuge più debole quale tutela di questi dalle conseguenze che il venir meno degli obblighi nascenti dal matrimonio producono a suo danno.
Secondo la lettura che si afferma nella giurisprudenza degli anni ’70 (Cass. civ. Sez-Unite 26/04/1974 n. 1194), la funzione dell’assegno di divorzio era di carattere composito, ovvero assistenziale, perequativo- compensativo e risarcitorio; il giudice, secondo le circostanze del caso di specie, poteva anche non tener conto di tutti i criteri di legge, ma soltanto di alcuni. Ne risultava un margine di discrezionalità amplissimo per il giudicante, molto spesso criticato dalla dottrina perché gravemente lesivo del principio di certezza del diritto.

La norma viene modificata con la l. 74/1987 con l’intento di ridurre la discrezionalità del giudice. A tal fine viene introdotta, quale condizione del diritto per il richiedente, il non disporre di adeguati redditi propri ed essere nell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive.
L’intento però non era stato raggiunto in quanto il criterio “redditi adeguati” era comunque suscettibile di varia interpretazione e poneva il quesito se si fosse garantito il mantenimento -al pari di quanto disposto dall’art 156 c.c. per il coniuge divorziato- o se fosse evocato il concetto di alimenti (art 433 c.c.). Il quesito non è di poco conto in quanto il mantenimento ha quale fine garantire la conservazione del tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale, gli alimenti invece garantire soltanto una vita dignitosa e presuppongono lo stato di bisogno.
Con le sentenze gemelle nn. 11490 e 11491/1990 la Corte di Cassazione a sezioni Unite scisse il giudizio in due fasi logiche. La prima volta ad accertare se i mezzi della parte più debole erano idonei a fargli mantenere il tenore di vita goduto durante il matrimonio, purché questo fosse durato un tempo sufficiente per incidere sulle sue prospettive esistenziali. Accertato che i mezzi del richiedente fossero inidonei, si apriva la seconda fase volta a determinarne l’ammontare dell’assegno applicando i criteri elencati nella prima parte della norma. Il tenore di vita era l’obbiettivo tendenziale e applicando i criteri indicati dalla norma poteva anche risultare che nulla fosse dovuto al coniuge istante.
Dato che l’inadeguatezza dei mezzi era la premessa necessaria del diritto all’assegno, la Corte ne aveva dedotto che la sua finalità non poteva che essere assistenziale.

L’interpretazione data dalla Corte lasciava comunque un amplissimo margine di discrezionalità al Giudice, cui era rimessa la valutazione della adeguatezza dei redditi del richiedente rispetto al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e della incapacità oggettiva di procurarseli.
Il coniuge richiedente era così gravato dall’onere di dedurre e dimostrare, con idonei mezzi di prova, circa l’an debeatur quale fosse il tenore di vita matrimoniale e quale fosse il deterioramento economico conseguito al divorzio e, circa il quantum, tutte le circostanze suscettibili di essere valutate dal giudice in base ai criteri dettati dalla norma.

Nella pratica il richiedente, dimostrati i propri redditi mediante la produzione in giudizio delle proprie dichiarazioni dei redditi, doveva dare prova del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ricorrendo a prove testimoniali, documentali e quant’altro.
Il concetto di tenore di vita era stato poi interpretato dalla Corte di Cassazione in senso ampio e lato, ovvero era stato ritenuto rilevante anche il miglioramento reddituale del coniuge onerato dovuto al prevedibile sviluppo di situazioni e aspettative già presenti durante la convivenza matrimoniale, in quanto collegati alla sua attività lavorativa, e non aventi carattere di eccezionalità (Cass. civ. Sez. I 8/02/2000 n. 1379).
Così interpretato, l’assegno di divorzio poteva in effetti trasformarsi in una rendita di posizione a favore del coniuge beneficiario. Questi, per il sol fatto di aver contratto matrimonio, veniva a godere delle maggiori capacità economiche dell’altro anche quando esse si davano in epoca successiva allo scioglimento del vincolo ed alla determinazione dell’assegno. Avanzamenti professionali, maggiori redditi, eredità pervenute erano tutti elementi che determinavano la nuova quantificazione dell’assegno di divorzio.

L’intangibilità del diritto all’assegno di divorzio ha iniziato a scricchiolare in seguito ai mutamenti del costume sociale e delle relazioni. La separazione è diventata sempre più frequente, tanto da essere definita dagli psicologi un evento paranormativo del ciclo vitale della famiglia.
Si è posto quindi il quesito se in caso di instaurazione di una convivenza da parte del beneficiario il diritto all’assegno divorzile venisse meno, considerato che i conviventi tengono ordinariamente condotte di mantenimento reciproco.
La Cassazione in un primo momento ha asserito che, in caso di instaurazione di convivenza di fatto da parte del soggetto beneficiario, il diritto all’assegno di divorzio viene meno ma non in maniera definitiva – rectius viene sospeso- potendo la nuova convivenza anche interrompersi con ciò determinando la reviviscenza del primigenio rapporto coniugale (Cass. Civ. Sez. I Sent., 11/08/2011, n. 17195).
Quindi con sentenza 03/04/2015, n. 6855 ha fissato il principio secondo il quale l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto ne resta definitivamente escluso.
Si è così applicato per la prima volta al coniuge beneficiario il principio dell’autoresponsabilità. Instaurare una convivenza significa formare un nuovo consorzio familiare all’interno del quale corrono doveri analoghi a quelli che corrono fra coniugi. La convivenza di fatto è legame instabile in sé che non offre le medesime garanzie previste da un matrimonio. L’instaurare una convivenza è fatto giuridico rilevante compiuto dal coniuge divorziato beneficiario di assegno divorzile, espressione di una scelta esistenziale libera e consapevole che comporta l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto.
La solidarietà post coniugale è stata ridisegnata anche dalla legge n. 55/2015 che ha ridotto la durata della separazione legale necessaria per poter chiedere il divorzio a 6 mesi, se consensuale, o a 12 mesi, se giudiziale. L’assegno di separazione, di mantenimento, è venuto ad avere un tempo di applicazione brevissimo, sei mesi in caso di separazione consensuale seguita da divorzio consensuale, il tempo di una causa di divorzio nel caso di separazione, anche giudiziale e sempre pendente, cui segua un divorzio contenzioso.

L’importanza dell’assegno di divorzio è stata quindi aumentata dalla legge n.55/2015. Inevitabile pensare anche all’assegno di divorzio quando si sceglie la strategia difensiva di una separazione.
Anche per questo motivo i detrattori di questo istituto hanno lamentato ancor di più come l’interpretazione data dalla Suprema Corte nel 1990 desse vita a rendite di posizione per il beneficiario e rendesse difficile per l’onerato creare nuove unioni e nuove famiglie.
Nella dottrina e nella giurisprudenza si è venuto poi affermando il principio secondo il quale il diritto alla costituzione della famiglia si declina nel diritto a costituire nuove unioni dopo il divorzio e che creare una nuova unione non può essere degradato per il coniuge gravato da assegno a mera scelta individuale non necessaria.
Il coniuge onerato non può incontrare nei doveri nascenti dal precedente matrimonio un limite alla costituzione di una nuova unione: l’obbligo che dalla precedente unione gli deriva deve quindi essere rapportato ai nuovi obblighi che assume nel creare la nuova famiglia. I diritti nascenti da un precedente matrimonio non possono essere intangibili.
In questo clima la Corte di Cassazione sezione I con pronuncia n. 11504/2017 ha rotto il fronte del “tenore di vita” introducendo un diverso ed opposto principio, “l’autosufficienza o indipendenza economica”.
La Corte ha confermato la natura assistenziale dell’assegno e la struttura bifasica del giudizio ma ha mutato la funzione dell’assistenza: non più mantenere un tenore di vita corrispondente a quello della pregressa convivenza, ma garantire il raggiungimento dell’indipendenza economica.
Ha indicato anche i parametri cui rapportare il giudizio sull’an debeatur (possesso di reddito di qualsiasi tipo, capacità di procurarselo, disponibilità di un’abitazione stabile) rimandando in ordine al quantum ai criteri dettati dalla norma (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi, durata del matrimonio). Dato il principio enunciato, i parametri normativi potevano operare, quindi, come elemento di incremento (non più di decremento, si noti) della misura dell’assegno.
Questa sentenza ha avuto grande risonanza mediatica: ne hanno scritto giornali, riferito telegiornali ed il tema è stato trattato in molte trasmissione televisiva, spesso con toni enfatici.
È seguito un anno di interpretazioni libere del concetto di autosufficienza e molti rigetti di domande di assegno di divorzio anche in cause giunte a precisazione delle conclusioni prima di detta pronuncia..

La giurisprudenza di merito si è per lo più adeguata al principio fissato dalla nuova interpretazione dell’art. 5 benché la pronuncia fosse stata emessa non a sezioni unite, conferma di quanto consolidati fossero nel pensiero comune concetti quali l’autoresponsabilità di ciascuno ed il diritto a potersi sciogliere da vincoli coniugali senza subirne conseguenze perenni.
Vi sono state però anche pronunce dissonanti che hanno dato risalto alla storia familiare (Trib. Milano
3.10.17 n. 9868), ai sacrifici fatti da una parte durante la vita matrimoniale ( Trib Roma 11.9.17), valutato il contesto sociale di riferimento (App Genova 12.10.18) e le singole storie familiari ( App. Brescia 12.1.18). La Corte di Cassazione è quindi nuovamente intervenuta affermando che il parametro dell’autosufficienza economica non poteva essere determinato in via generale e astratto, ma con riferimento alla specifica situazione del richiedente e sì da garantirgli un’esistenza libera e dignitosa (Cass, civ. sez. I 26/01/18 n. 2042 e n. 2043).
Questo orientamento della Corte di Cassazione ha prospettato una sostanziale abrogazione dell’istituto e della solidarietà post coniugale in genere, tanto contenuto era l’ambito di applicazione lasciato all’art 5 6° comma legge 898/1970.
La comunità scientifica e gli operatori del diritto hanno quindi denunciato tale rischio e sottolineato come una simile interpretazione dava luogo a sostanziali ingiustizie per quei casi in cui il coniuge debole avesse ridotto la propria attività lavorativa, rinunciando a progressioni di carriera per dedicarsi alla famiglia, dovesse comunque continuare ad occuparsi dei figli, fosse dotato di un patrimonio di entità modesta, non fosse in grado di tornare nel mondo del lavoro perché ormai priva di capacità professionali o anziano. Accade infatti con una certa frequenza che quando nascono i figli, la coppia decida che del loro accudimento si occupi prevalentemente la madre, soggetto che spesso fra i due percepisce già un reddito inferiore, magari anche limitando ulteriormente il proprio impegno lavorativo.

Tali criticità hanno dato luogo alla richiesta di intervento delle Sezioni Unite con sentenza n. 18287/18 in una fattispecie in cui in sede di separazione consensuale i coniugi avevano escluso l’assegno di mantenimento ed in sede di divorzio il tribunale aveva liquidato un congruo assegno alla moglie, revocato poi dalla Corte di Appello dato che la signora percepiva un congruo stipendio ed era titolare di un notevole patrimonio mobiliare ed immobiliare.
Secondo la Corte, l’adeguatezza dei mezzi dev’essere valutata alla luce di tutti i criteri elencati dalla prima parte dell’art. 5 c. 6° e non solo della condizione economica al momento del divorzio: è solo la loro considerazione complessiva che permette al giudice di cogliere ogni aspetto della storia di quel matrimonio e di valorizzarlo adeguatamente, al fine di determinare un giusto assegno.
È fondamentale, ripete più volte la Corte, che questi criteri siano utilizzati tutti e tutti insieme, che siano
equiordinati, ovvero secondo pari dignità e importanza.

La Corte pone al centro due elementi: gli accordi sulle regole della vita familiare succedutisi nel tempo e le loro conseguenze di lungo periodo sulla condizione economica, sociale e lavorativa di ciascun coniuge; il contributo dato da ciascun coniuge alla vita familiare e alla consistenza patrimoniale acquisita da entrambi e da uno solo durante il matrimonio. Al Giudice è rimesso anche una valutazione prognostica circa la concreta possibilità per il richiedente di recuperare il pregiudizio economico e professionale subito.
Viene così enunciato il principio secondo il quale “La funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi”.
In buona sostanza l’assegno di divorzio viene riconosciuto solo a quel coniuge che, in ragione delle scelte comuni fatte, abbia lasciato o ridotto il proprio impegno lavorativo e che, anche in ragione degli impegni familiari che perdurano oltre il divorzio, non sia in grado di recuperare il differenziale perduto.
La prova che dovrà essere fornita del richiedente è più articolata: dovrà essere provato il contributo dato alla formazione del patrimonio comune e dell’altro coniuge, il nesso causale tra il divario attuale e le scelte fatte durante la convivenza, le modalità secondo le quali ha assunto e svolto i compiti all’interno della famiglia in modo vicariante.
Avremo quindi istruttorie lunghe e complesse in quanto dovranno essere ricostruiti i vari momenti della vita matrimoniale, finanche della fase antecedente al matrimonio. Le modifiche delle condizioni di divorzio potranno vertere solo sul venire meno o ridursi dell’assegno non sul suo incremento. Le trattative fra i coniugi in sede di separazione ne risentiranno inevitabilmente e forte sarà la tendenza del coniuge più forte a contenere l’offerta di liquidazione in unica soluzione.

Concludendo e tralasciando le criticità applicative del principio enunciato dalla Suprema Corte evidenziate dalla dottrina, può dirsi che l’ambito applicativo dell’assegno di divorzio è oggi indubbiamente ridotto e con esso di tutti gli istituti della solidarietà postconiugale.
La fattispecie tipo cui si può ritenere applicabile è infatti solo il caso in cui un coniuge abbia rinunciato alla propria attività lavorativa o abbia ridotto il proprio impegno lavorativo o rinunciato ad occasioni migliori per assolvere ai compiti di cura dei figli e della famiglia in genere.
In tutte le altre situazioni in cui entrambi i coniugi abbiano comunque continuato il proprio percorso lavorativo, anche laddove al divorzio la situazione reddituale e patrimoniale dell’uno e dell’altro sia molto diversa, il coniuge più debole non si vedrà riconosciuto un assegno di divorzio e non avrà diritto alle altre forme di sostegno post coniugali previste dalla legge 898/1970.
Il principio è condivisibile in sé e farebbe pieno onore al cammino fatto dalle donne verso l’emancipazione dagli anni ’70 ad oggi se gli ostacoli alla affermazione della donna nel mondo del lavoro fossero effettivamente rimossi, se la ripartizione dei compiti di cura dei figli e degli anziani fosse effettivamente paritaria e se l’intervento sociale a favore delle famiglie fosse maggiore. Ovvero se alle donne fosse effettivamente garantito un accesso ed una permanenza nel mercato del lavoro pari a quella maschile.
Tanti se che potrebbero suggerire al legislatore di dare attuazione ai principi costituzionali fissati dagli Artt. 2,3 e 29 prevedendo il diritto ad un assegno di divorzio temporaneo, che garantisca al coniuge debole un tempo di riorganizzazione della propria esistenza sotto il profilo economico a prescindere dalle ragioni del gap reddituale, o introducendo i patti prematrimoniali che consentono alla coppia di disciplinare le conseguenze della fine della loro unione in una fase, l’inizio, in cui le esigenze personalistiche sono meno spiccate.